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Paddington in Perù: La nostra recensione di un sequel malriuscito

Prendete i due capitoli precedenti con toni delicati, umorismo britannico e coerenza narrativa e metteteli da parte, perché Paddington in Perù (2024) di Dougal Wilson non è nulla di tutto questo.

La trama

Paddington, orsetto che vive con la famiglia Brown (in cui la madre è interpretata da Emily Mortimer e non più Sally Hawkins), riceve una lettera da una pensione peruviana per orsi in cui è ospite la sua cara Zia Lucy. Nella lettera, la Reverenda Madre (Olivia Coleman) a capo della pensione comunica comportamenti ansiogeni e insoliti della cara Lucy, chiedendo all’orsetto di mobilitarsi per raggiungerla e consolarla. I Brown decidono di aiutare Paddington in questa avventura e si avviano per il Perù, dove verranno a conoscenza della scomparsa della Zia Lucy, mettendosi a cercarla in tutta l’Amazzonia. Il loro destino si incrocerà con quello del capitano di battello Hunter Cabot (Antonio Banderas) e della figlia Gina (Carla Tous), con un passato che sembra condurli alla mitica El Dorado.

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Snaturare un’icona

Paddington nacque dalla penna di Michael Bond, facendo la sua comparsa il 13 ottobre 1958 nel libro per bambini A Bear Called Paddington. Rappresenta sin da allora una chiara metafora dell’accoglienza di chi è diverso da noi (sia esso per ragioni geoculturali o sociali ) e della gentilezza verso il prossimo, affermandosi nei decenni come mascotte popolare del Regno Unito, tanto che un pupazzo del noto orsetto fu uno dei primi oggetti a essere scambiati tra UK e Francia al termine dei lavori dell’Eurotunnel nel 1994.

Se i valori sopracitati sono stati ben incarnati dai primi due film – diretti da Paul King, regista di Wonka (2023)  – lo stesso non può dirsi del terzo capitolo. Risulta un’opera che perde completamente di vista il senso del personaggio e lo inserisce in una narrazione dai toni di commedia familiare statunitense del primo quindicennio del Duemila (Un weekend da bamboccioni, 2 single a nozze et similia) che prova a ricalcare l’azione cartoonesca ben ponderata del secondo film, finendo per esasperarla ed edulcorarne il senso.

Inutile parlare del comparto tecnico, con una regia smunta e una fotografia priva della creatività a cui ci eravamo abituati. Sia chiaro: i primi due film non sono capolavori imprescindibili, ma, quantomeno, giocano molto sull’equilibrio fra necessaria impronta commerciale e sottesa impronta autoriale, e lo fanno bene. La recitazione, al contempo, gioca sui toni imposti dall’alto e spreca così un’altrimenti ottima Olivia Coleman e un tutto sommato idoneo Antonio Banderas.

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Conclusione

Il film andrà bene, come già sta facendo al box office internazionale (avendo incassato già più del budget di 72 milioni di sterline), ma rinunciando agli ottimi spunti forniti dalle due precedenti pellicole. Non bastano alcune citazioni a film come Steamboat Bill Jr. (1928) di Buster Keaton o I predatori dell’Arca Perduta (1981) di Steven Spielberg per riabilitare un prodotto il cui stampo commerciale ha superato di gran lunga quello autoriale, ma, come ci hanno tristemente insegnato molti cinecomic, dopo l’impegno dei primi film si può campare di rendita.

Dal 20 febbraio in tutti i cinema italiani!

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